#arrivato dritto dritto qui
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"Ancora non ti conosco molto bene ma ho l'impressione che tu sia quel tipo di persona che si è dovuta crescere da sola sin da piccola. E da quello che posso intuire stai facendo un ottimo lavoro, ma a volte quando si cresce in un ambiente insicuro si può soffrire di bassa autostima. [...] Probabilmente hai bisogno di qualcuno dalla tua parte, come un genitore che ti dica di rialzarti quando cadi, di essere resiliente, di continuare a credere in te stessa."
Jean Milburn, Sex Education S4: E7
#arrivato dritto dritto qui#come se al posto di Maeve ci fossi io#parole che non mi sono mai state dette e che non pensavo mi arrivassero così adatte per me da una serie#sex education
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Trigun - Final Fantasy VII - Crossover
AU - Dimension Travel - Crack-ish
PART 1
In un futuro lontano lontano, solo un po’ più a destra dell’impossibile, Vash da Trigun Maximun e affini finisce nell'universo di Final Fantasy 7 come un Eldritchiana Plant Creatura, tutto piume bianche e d'oro, ali frattali e intersecate tra di loro, e capace di cambiare grandezza massa a volontà. Un vero cryptido in tutto e per tutto più che mai.
Il suo nuovo aspetto, che ricorda tantissimo la forma che Vash prende quando perde il controllo, ha anche il suo immancabile orecchino e i suoi iconici occhiali ancora testardamente attaccati al naso, così come il suo braccio prostetico che però ora fa davvero parte del suo corpo e a cui un giorno verranno aggiunti degli incavi per incastrare la Materia.
Il suo nuovo aspetto, da vera entità ultraterrena, adesso, come in Trigun Stampede, può illuminarsi d’immenso, ovvero il suo corpo e i suoi occhi sono attraversati da striature di energia che illuminano di un fluorescente verde acqua quando Vash usa le sue abilità da Plant o prova forti emozioni che gli fanno anche sbocciare fiori e gerani rossi lungo il suo corpo.
Vash sta già vivendo da qualche tempo sul pianeta Gaia da qualche tempo quando incontra Sephiroth quando il giovane generale è in missione.
Per essere precisi Vash si stava ingozzando di Mako cristallizzato quando i due hanno il loro fatidico incontro. In effetti, a un certo punto, la Plant Creatura guarderà il Generale dritto negli occhi e molto deliberatamente mangerà una delle personali Materie del SOLDIER in faccia. Magari una anche che ha Masterizzato anche. E Vash farà tutto ciò con grande sfrontatezza.
Vash ha fame, e da quando è arrivato qui non ci ha messo molto a notare che mangiare il cristallizzato viscoso liquido lo sta rimettendo in forze.
Dopo la rocambolesca avventura che sarà il motivo del loro primo incontro, Sephiroth, per qualche motivo che non sarà mai capace di veramente spiegarsi, decide di rovesciare tutti i soprusi e abusi che aveva subito durante tutta la sua corta vita.
Vash finisce per consolarlo. Per poi traumatizzarlo mangiando della Materia.
Sephiroth decide di portarlo con sé a Midgar, ed è una lotta e mezza tenerlo lontano dalle sporche grinfie del Dipartimento di Scienze. Ma dopo Vash rende perfettamente chiaro che si rifiuta di diventare l’ennesima cavia da laboratorio per dei scienziati pazzi, il che risulta in un gioco di gatto e topo andato male visto che distrugge metà dei laboratori del piano mentre gli inutili assistenti tentano invano di catturarlo gli scienziati sono costretti ad alzare la bandiera bianca in arresa.
Uno dei fattori determinanti in ciò potrebbe essere che nella confusione creatasi un certo Professor Hojo potrebbe essere finito in ospedale con tutte le ossa rotte durante il tentativo fallito di catturare Vash. Più di una persona sarà felice alla notizia. E più di qualcuno brinderà a tarda sera in onore di Vash.
Nel tempo Vash si familiarizza con la Torre e i suoi abitanti, che lo trattano come una beneamata mascotte, perché Vash sa sempre come charme le persone con la sua gentilezza, non importa la forma che ha. E probabilmente il fatto che le sue gesta hanno mandato in ospedale il Professore Hojo in ospedale per diverso tempo aiuta.
Tuttavia, una delle cose di Midgar che metteva a disagio Vash era che qui nella città la Voce del Pianeta, il canto trascendentale che sentiva fin da quando era arrivato in questo nuovo Mondo è molto flebile in questa città.
Durante questo tempo incontra anche Genesis e Angel. Per dispetto, e dopo tutto ciò che ha dovuto passare nella vita a causa di suo fratello e tutti gli altri e non più disposto a farsi mettere i piedi in testa e ciò che aveva perso dovuto a ciò, mangia una delle materie di Genesis per il divertimento degli altri due First.
Vash, nei seguenti anni, farà ciò ogni volta che Genesis lo irrita abbastanza
Vash prende l'abitudine di seguire Sephiroth dappertutto dovuto a questo trauma, anche quando è costretto ad andare a fare una visita di controllo al dipartimento di scienze
Vash in maniera ingegnosa comunica il suo nome a Sephiroth, delicato come una piuma glielo sussurra nella mente
Passa del tempo, la guerra con Wutai è nelle sue fasi finali quando Genesis viene ferito durante un allenamento.Vash si preoccupa quando la ferita si rifiuta di guarire, così segue di nascosto il Soldier First quando va a trovare il Professor Hollander e così scopre che il corpo di Genesis sta decadendo a causa degli esperimenti
Vash va in shock e in uno stato di negazione. Il Plant creatura si è affezionata ai Soldiers, anche se Sephiroth è il suo preferito, e non è pronto a perderli dopo così poco tempo. Sono così giovani…
Vash si rifiuta di perdere qualcun altro di importante per lui e usando i suoi poteri da Plant, dopo aver messo all’angolo Genesis nel suo appartamento e con gli altri due presenti anche, Vash va tutto incomprensibile e biblico e immenso e facendo venire un colpo a tutti e tre i SOLDIERS First. Uno dopo l’altro li guarisce iniettando la sua saliva nel loro sistema cardiovascolare. Usando essa come medium Vash pulisce, sistema e mette in ordine le stranezze che percepiva in loro fin da quando li ha incontrati la prima volta.
Li guarisce con un morso pieno di saliva, una saliva miracolosa quanto mortifera, dalle proprietà simili al siero miracoloso usato dagli assassini del Eye of Michel e il liquido dei bulbi dove vivono le sue sorelle Plant.
Il suo intervento fa sì che i First diventino dei veri ibridi a tutti gli effetti e non facilmente suscettibili all’influenza di Jenova e facile discesa nella follia. Le loro cellule evolvono.
Continua ->
-> Trigun x FF7 - Part 2
-> Trigun x FF7 - Part 3
#trigun#final fantasy vii#final fantasy 7#crossover#crossover au#vash the stampede#nicholas d wolfwood#vashwood#ffvii#ff7#sephiroth#ffvii sephiroth#ff7 sephiroth#genesis rhapsodos#angeal hewley#zack fair#cloud strife#trigun au#ffvii au#ff7 au#trigun x ff7 au
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Un altro esempio di giornalismo spazzatura.
Un articolo redatto da ignoranti “ECO-ideologizzati” allo scopo di titillare “l’hindinniazzioneh” di “animalati e Gretini vari”.
Già nel titolo usando il termine “raro”si diffonde la fake news metropolitana che gli orsi bianchi siano in estinzione.
Fregnacce!
Negli anni ‘70, la popolazione di orsi polari era pari a circa 5.000 - 10.000 individui.
Attualmente le stime vanno dai 22.000 ai 31.000 orsi polari a livello globale.
Inoltre l’abbattimento dell’orso vien fatto passare come un atto di pura crudeltà umana.
Altra bufala! Casomai è esattamente il contrario!
In merito, vi invito a leggere perché le autorità islandesi sono giunte a tale decisione.
Altrimenti continuate a fidarvi dei “professionisti dell’informazione”!
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Dalla pagina FB "Un Italiano In Islanda":
Le polemiche riguardo all’abbattimento dell’orso polare arrivato in Islanda l’altro giorno e abbattuto dopo essere stato visto da una signora di 83 anni nel suo giardino in un luogo isolato, sono state forti anche qui. È comprensibile che la morte di un animale così fortemente simbolico susciti indignazione, ed è sicuramente un grande peccato. Tuttavia, le autorità islandesi, come di consueto, hanno spiegato molto chiaramente le ragioni dietro alla scelta. Le riassumo qui sperando di placare le polemiche:
— Premessa: gli orsi arrivano molto raramente su pezzi di ghiaccio staccatisi dalla banchisa e trasportati dalla corrente. I più annegano in mare, ma se il ghiaccio è abbastanza grande e non si scioglie in mezzo al mare approdano in Islanda. L’ultimo era stato nel 2016, prima ce ne erano stati uno nel 2010 e due nel 2008, si tratta dunque di eventi rarissimi.
1) l’orso polare non può sopravvivere in Islanda: ha bisogno di ghiaccio sul mare per cacciare foche mimetizzandosi. Le coste islandesi sono scure. Non è dunque possibile sostenere orsi liberi in Islanda. Non riuscirebbero a cacciare, senza contare che non ci sono tratti di costa disabitati abbastanza grandi da poterne ospitare alcuni senza rischi per la popolazione autoctona.
2) gli esemplari che arrivano in Islanda sono smagriti e stremati. Oltre a renderli ancor più pericolosi, ciò fa sì che le chance di sopravvivenza ad un anestetico siano basse. Anestetizzare un animale debilitato significa spesso ucciderlo.
3) A volte lo stress e l’adrenalina rendono l’anestetico inefficace. Per spararlo bisogna essere ad al massimo 30m. Se l’anestetico non funziona e l’orso carica, va abbattuto comunque.
4) Nel 2008, si provò ad anestetizzarne uno, perché un ente privato si era offerto per coprire i costi di trasporto, ma quello scappò verso il mare. Perderlo di vista significava rischiare che sbucasse in zone popolate, uccidendo qualcuno, per cui lo si è dovuto abbattere.
5) L’orso non può comunque essere addormentato e portato subito da qualche parte per poi mollarlo, come si immaginano alcuni. Deve stare per lungo tempo a riprendersi in una struttura apposita. Nessuna struttura di questo tipo esiste in Islanda, e costruirne una per un orso ogni 10 anni non è realistico in un paese grande un terzo dell’Italia ma con sole 380.000 anime a gestirlo. Una volta acclimatato in una struttura, potrebbe non essere più possibile liberarlo senza che muoia perché non più in grado di sopravvivere da solo, se non cercando la presenza umana, il che porta al punto…
6) una volta rimasto a contatto con le persone, l’orso diventa ancor più pericoloso perché si abitua a loro. Significa che riportarlo in Groenlandia implica il piantare ai groenlandesi una predatore apicale che non ha più alcun problema ad avvicinarsi all’uomo. Per questo i groenlandesi non rivogliono orsi indietro. Il veterinario groenlandese contattato immediatamente dalla autorità islandesi aveva immediatamente posto il rifiuto all’ipotesi di rimpatrio “Se mollate quell’orso in Groenlandia andrà dritto a cercare qualche abitato umano”.
7) l’orso polare non è come gli orsetti marsicani. È importante capire questo: È una macchina omicida. La convivenza con l’uomo è assolutamente preclusa dal fatto che per esso gli uomini sono prede. Non attacca solo per difendere cuccioli o territorio. Attacca per uccidere e mangiare. Non sono animali pacifici che vivono nei loro territori e attaccano solo se disturbati.
8)gli orsi polari portano malattie pericolose per l’uomo.
9) Riportare un esemplare in Groenlandia significherebbe sottoporlo ad uno stress tale per cui rischierebbe comunque di morire. Non sarebbe un viaggio come quelli fatti per spostare fauna africana. Senza contare che in Africa le operazioni di spostamento sono routine, e sono compiute con mesi di preparazione e su esemplari ben conosciuti.
10) Ammesso poi che si optasse per un rimpatrio e che qualche paese lo accettasse, non è che puoi portarlo in un posto a caso dell’artico e lasciarlo. Se l’habitat è ideale, ci saranno già altri orsi, orsi che lo riconoscerebbero come estraneo e che lo ucciderebbero. Oppure potrebbe essere lui ad uccidere orsi nel luogo dove viene lasciato.
11) la popolazione di orsi polari per ora ha buoni numeri (20-30.000 secondo le stime IUCN), e un esemplare abbattuto ogni dieci anni non rischia di comprometterla (sono molti di più quelli che muoiono in mare prima di riuscire ad arrivare in Islanda). La specie sembra anzi in aumento in alcune zone. Il pericolo che la minaccia è il riscaldamento e la perdita di ghiaccio marino, molto più della caccia, che è portata avanti dagli inuit dell’artico secondo un rigido sistema di quote. Non significa che dobbiamo infischiarcene, ma che non ha senso usare l’argomento del “è in via d’estinzione” per criticare la decisione dell’abbattimento.
Nonostante resti il dispiacere per un animale iconico, spero che, dopo queste spiegazioni, cessino le polemiche in merito e si capisca meglio il perché di questa scelta. Non sono solo ragioni di ordine economico, come spero sia chiaro, ma anche sanitario, sociale e ambientalistico, oltre che di buon senso. Questa non è una guerra tra gente che ha a cuore gli animali e gente che li vuole vedere morti. Non dovrebbe esserlo. Si può tranquillamente tenere al benessere animale e accettare che, talvolta, è la soluzione più di buon senso che se ne abbatta uno, senza che ciò significhi sdoganare l’uccisione indiscriminata di qualsiasi animale. La realtà è complessa, cerchiamo di pensare in modo complesso e non scadere sempre nelle letture in bianco e nero.
#orso polare#islanda#Groenlandia#innuit#ghiaccio polare#fregnacce di Repubblica#animalisti ottusi#WWF#animalari salottieri
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Il divano su cui è cambiato tutto
🇮🇹 ("The sofa on which everything changed" Italian Version)
Il divano nuovo era rigido, la stoffa era tesa come una corda di violino, era come sedersi su una panca di legno. A Riccardo non sembrava di essere una persona seduta su un divano, pensava di essere più simile a un giocattolo appoggiato lì, dove qualche bambino sbadato l'aveva appoggiato e dimenticato.
Una tazza di tè, i piedi sul tavolino, un po' di musica...
Riccardo ascoltava la radio avvolto nella sua felpa in pile bianchissima, morbida e profumata. Aveva provato a mettersi comodo su quel divano nuovo, stava provando a sentirsi a casa nell'appartamento in affitto partendo dalle cose più semplici a cui riusciva a pensare. Il modo in cui era arrivato su quel divano però era tutt'altro che semplice, da qualche settimana la vita di Riccardo era stata completamente rivoluzionata.
Il padre di Riccardo, un uomo burbero e molto religioso, aveva insistito perché il figlio iniziasse a lavorare nel piccolo ferramenta di famiglia a Saronno. Riccardo invece voleva andare all'università, non sapeva nemmeno cosa volesse studiare ma era certo di non voler passare la sua esistenza tra brugole, sifoni e catenacci. "So io cos'è meglio per te " ripeteva il padre con tono secco e autoritario; Riccardo le aveva provate tutte per convincerlo, ma con la gran testa dura che aveva, l'uomo restava inamovibile sulla sua decisione.
Una sera Riccardo decise di giocare l'ultima carta che aveva a disposizione e dopo aver fatto accomodare i genitori sul divano prese coraggio e annunciò: "Papà, Mamma, mi piacciono i ragazzi". Il padre rispose con una risata, seguita solo dal silenzio. Resosi conto che non si trattava di uno scherzo, un velo di incredulità passò davanti ai suoi occhi, per poi esplodere in una rabbia feroce. L'avrebbe strozzato, quel figlio ingrato, come si era permesso? Le mani dell'uomo sarebbero state già strette attorno al gracile collo del giovane, se non fosse intervenuta la madre, che di rado faceva valere le sue opinioni. Mezz'ora dopo Riccardo era fuori dalla porta di casa e camminava curvo sotto il peso di un grosso zaino, trascinando due valige più grandi di lui. Dentro c'era tutta la sua vita, buttata alla rinfusa. Paradossalmente Riccardo non si era mai sentito tanto leggero e seppur ferito nell'animo, sorrideva al pensiero che il giorno successivo sarebbe andato a vedere l'università statale di Milano. Riccardo passò la notte in bianco alla stazione di Saronno; prese il primo treno per Milano alle 5:44 e poi puntò dritto all'università.
Giunto davanti al grosso edificio, dovette aspettare un’ora e mezza, perché il grosso portone veniva aperto alle 7:30. Nel piazzale quasi deserto i suoi occhi si posarono su un volantino arcobaleno appeso al muro: indicava gli appuntamenti del collettivo LGBTQ+ dell'università. Riccardo ci fece una foto con il cellulare pensando che forse tra i membri di quel gruppo qualcuno avrebbe potuto ospitarlo qualche giorno. Quando la guardia aprì le porte, Riccardo tentò di raggiungere il cortile interno, ma venne subito fermato: "dove va con tutte queste valige?" Chiese la guardia, “Servono per una lezione, sono qui preso perché devo montare tutto l'equipaggiamento. Mi han detto che siamo all'ultimo piano" mentì Riccardo. La guardia indicò con aria perplessa la strada per raggiungere un ascensore che portasse all'ultimo piano, e Riccardo ringraziò e si avviò con passo deciso, prima che la guardia potesse chiedere altro. Giunto nel bagno dell'ultimo piano, il povero ragazzo sfinito chiuse a chiave la porta si addormentò.
mezzogiorno era passato da un pezzo quando Riccardo si svegliò e si diresse alla riunione del collettivo LGBTQ+. Ovunque andasse tutte quelle valige lo facevano sentire come un marziano appena sceso sul pianeta terra. Riccardo individuò l'aula della riunione senza problemi, era quella più chiassosa di tutte. L’allegro vociare dei presenti non si fermò quando il ragazzo entrò nell'aula, ma qualche occhiata malcelata volò rapidamente dal viso del ragazzo, al suo corpo, ai pesanti bagagli.
Come di consueto, prima di iniziare la riunione ogni ragazzo a turno si alzò in piedi ripetendo a voce alta il nome, la facoltà, da quanti anni studiava e da quanti frequentava il collettivo. Quando fu il suo turno, Riccardo si alzò e disse "Sono Riccardo, ho 19 anni, non sono uno studente e mi hanno appena cacciato da casa". Poiché i presenti lo fissavano con sgomento e non accennavano a prosegue con le presentazioni, Riccardo continuò il suo racconto ricapitolando ciò che gli era successo nelle ultime ore.
Quella sera Riccardo dormì sul divano di un gruppo di coinquilini membri del collettivo, il giorno successiva i ragazzi del collettivo avevano diffuso la storia di Riccardo a mezza comunità LGBTQ+ milanese. Per tre settimane Riccardo rimbalzò da un divano all'altro, rapidamente trovò un lavoro come maschera al Carcano, il celebre teatro Milanese; infine si trasferì più o meno definitivamente affittando una stanza in un appartamento in periferia. Ora divideva la casa con Simone, un trentenne dal fisico massiccio, senza capelli, poco virile nei modi, che lavorava come assistente e ricercatore in università. I due andavano d'accordo, ma i loro orari erano talmente diversi che si incrociavano di rado nell'appartamento.
Quel giorno Simone doveva tenere una lezione in università, quindi Riccardo era solo in casa. Riccardo sedeva su quel divano rigido con la tazza in mano e mentre la bustina di tè colorava l'acqua, le dita del giovane rigiravano lo strano pacchetto di carta colorata dove la busta era conservata poco prima. "Ma Silvia dove le recupera ste cose?" pensò. Silvia era un'amica di Simone, una di quelle ragazze che si credono un po' streghe e collezionano cristalli e oggetti presunti magici; dove passava Silvia lasciava una scia di ninnoli e fesserie che lei credeva prodigiosi e Simone la lasciava fare, per farla contenta. La bustina aveva dei caratteri illeggibili sopra, ma per Riccardo era come se ci fosse scritto "Questo l'ha portato Silvia".
Il fumo si alzava silenziosamente dalla tazza di acqua calda, ed un aroma dolce si diffuse per la stanza. "...Vaniglia? ...Caramello? …Nocciola?" Si chiese Riccardo mentre inalava la fragranza intensa sprigionata dalla tazza. Era un profumo tanto corposo che sembrava penetrare nella pelle e scaldare il corpo come un bagno caldo. Ecco, forse per la prima volta dopo settimane Riccardo stava riuscendo a rilassarsi. "Se solo questo pile non prudesse tanto" pensò, ed iniziò a spogliarsi. Era un capo davvero strano, fino a qualche momento prima sembrava morbido e confortevole, ora invece pizzicava in modo insopportabile.
Stando a torso nudo sul divano Riccardo avvicinò la tazza alle labbra, soffiò, e poi ne bevve un piccolo sorso: era il the più buono che avesse mai bevuto, dolce ma non stucchevole, sembrava quasi il sapore di... Un bacio. Anche questo era un pensiero strano, Riccardo non aveva mai baciato le labbra di un uomo, eppure quello era il sapore a cui lo associava. Riccardo pazientò per far raffreddare un poco la bevanda, poi mandò giù alcuni sorsi. Il calore della bevanda si diffuse in ogni angolo del suo corpo, donando una profonda sensazione di benessere. Era una vita che Riccardo non si sentiva così bene, si sentiva vivo, aveva voglia di prendere e andare a fare una corsa fuori, di uscire e guardare il cielo, di iniziare un nuovo capitolo della sua vita…
"Devo chiedere a Silvia dove ha preso questa roba" pensò grattandosi la barba.
L'ennesimo avvenimento insolito: Riccardo non aveva mai avuto la barba, eppure ora c'era, fitta e nera, quasi come quella del suo coinquilino. Riccardo, in preda alla sensazione quasi orgasmica donata del tè colorato, non diede peso alla barba, né ai peli che iniziavano a crescere sul resto del suo corpo. La barba dava a Riccardo un'aria distinta, dimostrava qualche anno in più ma gli stava proprio bene. Con quei peli poi sembrava più muscoloso, ma era un’illusione o erano muscoli veri? Com'era possibile una cosa del genere? Ecco spiegato il desiderio di muoversi e correre, la sua nuova muscolatura era calda e pronta, come una moto da gara appena uscita dal concessionario. Ma correre per cosa? Correre da chi? Riccardo decise di rivestirsi e uscire, ma prima terminò il contenuto della sua tazza a grandi sorsi.
Il desiderio di uscire svanì immediatamente e Riccardo rimase seduto esattamente come prima, Imbambolato e incredulo. Un senso di improvvisa rilassatezza permeava il suo corpo, che progressivamente iniziò a sprofondare nel divano. I cuscini si piegarono e deformarono, sotto il peso improvviso della massa di Riccardo, che cominciò ad aumentare in modo impressionante. Il corpicino pelle e ossa che Riccardo aveva fino a pochi minuti prima non era che un lontano ricordo, ricoperto com'era di muscoli, carne e pelo.
La trasformazione che stava avvenendo avrebbe lasciato sbigottito chiunque, un omino di nemmeno vent'anni ora ne dimostrava tranquillamente più di trenta, ed aveva moltiplicato le sue dimensioni come mai avrebbe potuto fare in vita sua, nemmeno se avesse iniziato vivere di abbuffate e sollevamento pesi. Riccardo era satollo, rilassato e felice, un po' come ci si sente dopo un pranzo di Natale.
Quando quella sensazione si dissipò, raggiunse uno specchio e si osservò compiaciuto: Era proprio un bell’uomo. Nonostante l'assurdità della situazione, Riccardo restava calmo, come se tutto ciò fosse perfettamente sotto controllo, come se fosse stato lui a voler essere un'altra persona. Più si guardava nello specchio e più realizzava che la sua corporatura sembrava la copia identica di quella di Simone. Chissà cos'avrebbero detto i vicini? Con quei due gorilla nell'appartamento di fianco (uno dei quali probabilmente s'era mangiato quel ragazzo magrolino che non si vede più). A proposito di Simone, come avrebbe potuto spiegargli che quella bustina l'aveva trasformato in un bestione del genere? Alla parola "bestione" a Riccardo passò per la testa l'idea di controllare una parte del corpo importantissima, a cui non aveva ancora pensato. Ancora prima di mette la mano, non poté fare a meno di percepire un certo movimento nelle sue mutande, ma un rumore improvviso interruppe il delicato momento: erano le chiavi di Simone nella toppa della porta. Il cuore di Riccardo iniziò a battere tanto forte che sembrava essere cresciuto anch’esso. Per la prima volta un senso di preoccupazione permeò quel corpo nuovo e massiccio, che si diresse goffamente davanti alla porta d'ingresso.
La porta si spalancò rivelando una figura minuta ricoperta da una maglietta blu decisamente troppo grande. Un grazioso e accigliato ragazzetto biondo fissava Riccardo. "Simone?" Chiese Riccardo sbigottito.
Simone aveva bevuto lo stesso tè quella mattina, ma a lui era sembrato un tè normalissimo ed era andato a tenere la sua lezione. Durante il viaggio di ritorno in tram, aveva avvertito un capogiro improvviso e deciso di scendere, temendo che viaggiare sui mezzi peggiorasse la situazione. Mentre camminava verso casa aveva iniziato a rimpicciolire e ringiovanire, e mentre il suo corpo prendeva la forma di quello di Riccardo, sulla testa crescevano morbidi capelli biondi, la sua barba invece svaniva senza lasciare la minima traccia. Simone non poteva credere a ciò che stava succedendo, come poteva fermare questa cosa? Più il suo corpo si trasformava e più si accendeva in lui il desiderio di correre a casa, cosa che risultava abbastanza difficile con scarpe e vestiti decisamente troppo grandi, tanto da doverli necessariamente tenere su saldamente con le mani per non perderlo per strada. Il poveretto correva reggendo con due mani quei pantaloni enormi, sembrava quasi che stesse partecipando ad una corsa coi sacchi. Poiché i pantaloni cadevano da tutte le parti e non nascondevano nulla, erano ormai solo un intralcio e Simone decise di abbandonarli per strada. Correre in mutande gli permise di andare più veloce, dopotutto mancava solo l’ultimo pezzetto di strada.
Raggiunse la porta di casa ripetendo nella sua testa il discorso che voleva fare a Riccardo per spiegare cosa gli era successo, ma lo shock più grande doveva ancora arrivare.
Aprendo la porta Simone rimase esterrefatto, ma capì subito che quell'omone grande grosso a torso nudo con una visibile erezione nei pantaloni altri non era che Riccardo.
Non fu necessario dire una parola in più, i due sapevano esattamente cos'era successo all'altro, anche se non avevano idea del perché fosse successa una cosa simile. Poi sentirono più forte che mai quell'impulso a scattare, a correre, a raggiungere... L'altro. Era per quello che Riccardo voleva correre fuori, lo stesso motivo che spingeva Simone a correre a casa: Una forza magnetica li attirava l'uno all'altro. Simone deglutì, i suoi occhi si spostavano dal Viso di Riccardo al suo pacco gonfio, mentre i suoi piccoli piedi si muovevano portandolo verso l'omone. Mentre Simone camminava lasciò cadere anche le mutande, ormai fuori misura. Riccardo liberò Simone anche dalla la maglietta (che arrivava quasi alle ginocchia) e vide che anche Simone era molto eccitato. Mentre Simone tentava di ricambiare il favore e sbottonava la cintura del coinquilino, Riccardo non poté fare a meno di guardare il corpicino che aveva davanti, con la sua piccola erezione pulsante: "sei la cosa più carina che abbia mai visto" disse.
Simone arrossì e una volta sfilata la cintura dai pantaloni di Riccardo lo spinse verso la camera da letto e chiuse la porta d'ingresso.
Riccardo sollevò Simone e lo mise sul letto, pensò che fosse davvero carino ridotto così, poi senza esitare si tolse i pantaloni e le mutande.
Simone non fece nemmeno in tempo a realizzare che il membro di Riccardo era persino più grande di quello che aveva lui prima di trasformarsi. Riccardo raggiunse il coinquilino trascinando le ginocchia sulle lenzuola e si abbassò per dargli un bacio: era un bacio dal sapore dolce, forse perché le labbra di Riccardo sapevano ancora di The. Simone non aveva mai ricevuto un bacio del genere, avrebbe voluto che il tempo si fermasse lì. La pelle calda di Riccardo a contatto con quella di Simone era la sensazione più bella che avessero mai provato.
Riccardo si spostò, fece sdraiare Simone a pancia in su e gli aprì gambe, per infilare la faccia barbuta sotto sue le palle: era un punto talmente sensibile che Simone ebbe paura di venir subito, solo per essere toccato lì dalle labbra di Riccardo, che invece iniziò a leccare il piccolo buco del ragazzo. Simone fremeva di piacere (da quando era così sensibile?) mentre si aggrappava alle lenzuola nella sua testa si faceva spazio il desiderio di afferrare con entrambe le mani la virilità gigantesca di quell'omone.
Quando Riccardo sollevò la testa, Simone si spostò e lasciò il posto a Riccardo, notando che nella fretta aveva dimenticato di togliere i calzini. Mentre l'omone stendeva la sua larga schiena sul letto, Simone gli sfilò a fatica i calzini grigi, ormai deformati perché coprivano dei piedi che avevano appena moltiplicato la loro misura. C'era un che di eccitante in questa azione, Simone pensò che era strano, non aveva mai avuto gusti simili, in genere i piedi lo lasciavano indifferente, ora invece non poteva lasciare cadere la gamba pesante di Riccardo. Avvicinò invece il piede alle labbra e baciò la pianta del grosso piede, per poi farlo scorrere sulla pelle del torso, sino al pube. Riccardo sorridendo divertito solleticava con le dita dei piedi l'erezione di Simone che ora più che mai sembrava sul punto di esplodere. Eccitatissimo, Simone abbassò la faccia sul pube villoso di Riccardo e lo baciò ripetutamente. Anche l'erezione di Riccardo pulsava, Simone l'afferrò con una mano, mentre l'altra reggeva con delicatezza le due grosse palle. Riccardo improvvisamente si sentì totalmente succube di quell'audace biondino, ora che il suo poderoso nuovo attrezzo era interamente nelle sue mani. Simone avvicinò la faccia al prezioso bottino e lo prese in bocca, mettendo in pratica tutta l'esperienza che aveva in questo genere di cose. Riccardo di fronte a quella sensazione del tutto nuova, fu più volte sul punto di venire, ma prima di farlo c'era almeno un'altra cosa che voleva provare.
Simone si spostò e si mise a cavalcioni di Riccardo, come se fosse la risposta di un messaggio telepatico. Dopo aver lubrificato la zona a dovere ed avere messo il preservativo più grande che c’era nel cassetto di Simone, Riccardo infilò con delicatezza il suo membro nella sottile apertura di Simone, che in genere era versatile, ma ormai erano anni che non trovava un partner attivo che avesse rapporti con lui. Fu uno dei rapporti più intensi della sua vita, e pensò che qualsiasi cosa fosse successa era stata necessaria per portare li loro due, in quel momento, con quella forma, in quel letto. Vennero a pochi secondi di distanza l'uno dall'altro, poi si spostarono in bagno per pulirsi.
Con la mente un po' più lucida Riccardo chiese: "...e ora che si fa con questa faccenda?". Simone, seduto sul bidet, dava le spalle al coinquilino e senza alzare gli occhi rispose: "che vuoi che si faccia? Ora chiamo Silvia e le chiedo se questa cosa è temporanea o permanente, se serve staremo qualche tempo a casa aspettando che passi".
Il viso di Riccardo si rabbuiò, senza sapere perché non voleva che le cose tonassero come prima. "Se fosse solo una cosa provvisoria ti va di berci un'altra tazza di quel tè ogni tanto?" Chiese Riccardo con una timidezza che addosso ad un omone del genere faceva ancora più tenerezza. "Rifarlo? E se fosse permanente?" Replicò Simone con tono stupito e preoccupato. Riccardo si accovacciò dietro a Simone e gli diede un bacio sulla spalla, poi disse: "Se fosse permanente, ti andrebbe di uscire con me?"
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𝘓𝘦 𝘪𝘮𝘮𝘢𝘨𝘪𝘯𝘪 𝘪𝘯 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘰 𝘱𝘰𝘴𝘵 𝘴𝘰𝘯𝘰 𝘱𝘳𝘰𝘷𝘦𝘯𝘪𝘦𝘯𝘵𝘪 𝘥𝘢𝘭 𝘸𝘦𝘣 𝘦 𝘢𝘭𝘵𝘦𝘳𝘢𝘵𝘦 𝘨𝘳𝘢𝘻𝘪𝘦 𝘢𝘭𝘭'𝘪𝘯𝘵𝘦𝘭𝘭𝘪𝘨𝘦𝘯𝘻𝘢 𝘢𝘳𝘵𝘪𝘧𝘪𝘤𝘪𝘢𝘭𝘦. 𝘚𝘦 𝘴𝘦𝘪 𝘪𝘯𝘧𝘢𝘴𝘵𝘪𝘥𝘪𝘵𝘰 𝘥𝘢𝘭𝘭𝘢 𝘱𝘳𝘦𝘴𝘦𝘯𝘻𝘢 𝘥𝘪 𝘲𝘶𝘢𝘭𝘤𝘩𝘦 𝘤𝘰𝘯𝘵𝘦𝘯𝘶𝘵𝘰 𝘤𝘩𝘦 𝘳𝘪𝘵𝘪𝘦𝘯𝘪 𝘦𝘴𝘴𝘦𝘳𝘦 𝘥𝘪 𝘵𝘶𝘢 𝘱𝘳𝘰𝘱𝘳𝘪𝘦𝘵à, 𝘤𝘰𝘯𝘵𝘢𝘵𝘵𝘢𝘮𝘪 𝘱𝘦𝘳 𝘳𝘪𝘮𝘶𝘰𝘷𝘦𝘳𝘭𝘰. 𝘨𝘳𝘢𝘻𝘪𝘦.
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𝘛𝘩𝘦 𝘪𝘮𝘢𝘨𝘦𝘴 𝘪𝘯 𝘵𝘩𝘪𝘴 𝘱��𝘴𝘵 𝘤𝘰𝘮𝘦 𝘧𝘳𝘰𝘮 𝘵𝘩𝘦 𝘸𝘦𝘣 𝘢𝘯𝘥 𝘢𝘳𝘦 𝘢𝘭𝘵𝘦𝘳𝘦𝘥 𝘵𝘩𝘢𝘯𝘬𝘴 𝘵𝘰 𝘢𝘳𝘵𝘪𝘧𝘪𝘤𝘪𝘢𝘭 𝘪𝘯𝘵𝘦𝘭𝘭𝘪𝘨𝘦𝘯𝘤𝘦. 𝘐𝘧 𝘺𝘰𝘶 𝘢𝘳𝘦 𝘣𝘰𝘵𝘩𝘦𝘳𝘦𝘥 𝘣𝘺 𝘵𝘩𝘦 𝘱𝘳𝘦𝘴𝘦𝘯𝘤𝘦 𝘰𝘧 𝘢𝘯𝘺 𝘤𝘰𝘯𝘵𝘦𝘯𝘵 𝘵𝘩𝘢𝘵 𝘺𝘰𝘶 𝘣𝘦𝘭𝘪𝘦𝘷𝘦 𝘵𝘰 𝘣𝘦 𝘺𝘰𝘶𝘳 𝘱𝘳𝘰𝘱𝘦𝘳𝘵𝘺, 𝘱𝘭𝘦𝘢𝘴𝘦 𝘤𝘰𝘯𝘵𝘢𝘤𝘵 𝘮𝘦 𝘵𝘰 𝘳𝘦𝘮𝘰𝘷𝘦 𝘪𝘵. 𝘛𝘩𝘢𝘯𝘬 𝘺𝘰𝘶.
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Ho conosciuto la storia di Nicola per caso.
Il suo racconto mi è arrivato dritto al cuore perché è raro, è speciale. Così come sono speciali i suoi genitori e tutta la sua famiglia. Mariano mi ha affidato la correzione di quello che già era un piccolo tesoro, revisionarlo è stato un lavoro fluido e scorrevole che è arrivato da sé.
Ora tocca a voi 🦖
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Venom: The Last Dance: l'ultimo ballo di Tom Hardy è anche il migliore della saga
Strampalato, squilibrato eppure ancora una volta irresistibile e spassoso: la saga del simbionte Marvel si conclude (?) nel segno dell'intrattenimento più puro. Al cinema.
Fin dal titolo, il terzo capitolo della saga, volutamente e spassionatamente sopra le righe, mette subito le cose in chiaro. Venom: The Last Dance. L'ultimo ballo, come Michael Jordan con i Chicago Bulls. Titolo importante la fine del viaggio di Tom Hardy nei panni del simbionte, e viceversa, più famoso del cinema (e dei fumetti). Insomma, il colpo defintivo? La chiusura del cerchio? Chissà. E se anche fosse, andrebbe bene così.
Tom Hardy e un simpatico cavallo
Intanto, senza soffermarci troppo sulla trama, quello di Kelly Marcel (che ha scritto la sceneggiatura insieme allo stesso Hardy) evita sterzate, colpi di scena e chissà quale volo pindarico. Piuttosto, Venom, arrivato al terzo capitolo, mantiene il suo spirito scanzonato, riga dritto, calcando la mano sulla figura dell'anti-eroe alieno, non troppo scorretto, ma nemmeno troppo buono. Diciamo, una via di mezzo. Una via a metà, come un cinecomic d'altri tempi, ad uso e consumo di un intrattenimento leggero, e quindi sincero nel suo essere un palese e irresistibile guilty pleasure.
Venom: The Last Dance, oltre la trama c'è di più
Eddie/Venom
Dicevamo della trama. Venom: The Last Dance ha un plot più facile a farsi che a dirsi. Vi basta però sapere che un cattivone, tale Knull, una specie di Dio malvagio rinchiuso in un angolo del buio universo (per farla breve), mette gli occhi sul simbionte: solo la dipartita del protagonista, infatti, potrà liberarlo dalle catene. Non ci soffermiamo troppo sull'intricata motivazione (non è importante), tuttavia è bene sapere che il malvagio Knull - di fatto introdotto dalla Sony per il suo Spider-Man Universe - spedisce sulla terra mostruosi alieni incaricati di far fuori la coppia (di fatto) Venom/Eddie Brock che, dopo aver liberato un branco di cani da combattimento (risaputo l'amore di Tom Hardy per i nostri amici a quattro zampe), punta a New York facendo però tappa a Las Vegas.
Se l'Area 51 viene smantellata
Tutto qui? In parte, sì. In fondo, Venom: The Last Dance è una fuga lunga un film (oltre ad essere forse il migliore della trilogia). Un film che fa il giro largo per arrivare a un ending, se vogliamo, pure un filo commovente (accompagnato da un brano ad effetto e meravigliosamente fuori luogo, ossia Memories dei Maroon 5). In mezzo, però, una sequela di personaggi che intervallano il one-man-show di Tom Hardy: Chiwetel Ejifor aka Generale Taylor è la sintassi del pensiero militare, tarato e ottuso, che si scontra con la visione scientifica della dottoressa Payne (Juno Temple), che invece di eliminare i simbionti vorrebbe studiarli, e probabilmente accudirli. Mica male il sommesso ma sempre apprezzato retaggio anti-militarista.
La linga lunga di Venom
Spunta pure Rhys Ifans, hippie alla guida di un furgone Volkswagen che, con la sua famiglia, si aggira per il deserto del Nevada canticchiando David Bowie nella speranza di adocchiare qualche alieno. Eppure, anche la tradizione misteriosa e leggendaria degli UFO, secondo Kelly Marcel, è destinato ad estinguersi: gli Stati Uniti stanno smantellando il mito dell'Area 51, costruendo una base più avanzata, e più controversa.
Venom, immigrato alieno in un mondo pericolante
Se la comicità splastick e le battutacce da scuola media provano a strappare qualche risata, cerchiamo di stabilire una connessione con il personaggio targato Marvel, pensandolo come se fosse un immigrato alieno che in qualche modo deve sopravvivere in un mondo poco ospitale, e incattivito verso coloro che vengono intesi come una minaccia. È questo Venom, straniero intergalattico che prova a confondersi tra la gente, travestendosi e imparando, dal proprio amico umano, che solo i cattivi si possono mangiare.
Un primo piano di Tom Hardy
A proposito di Marvel: se la cinecomic fatigue pare lontana dall'essere superata, titoli come Venom: The Last Dance, diametralmente opposto ad altri titoli dell'MCU, fungono da digressione spensierata e disinvolta. Sono i piedi per terra, l'immutabile certezza dettata dal cinema d'intrattenimento, e nulla più. Nessun patrimonio, nessuna ambizione. Toni da commedia che strizzano l'occhio al buddy-movie con una spruzzata di rom-com. E a noi, per questo, la saga di Venom, piace. Piace proprio per il suo essere (stata?) un unicum.
Conclusioni
Terzo e ultimo capitolo per Tom Hardy nei panni di Venom? Chissà. Intanto, la chiusura del cerchio potrebbe anche essere il migliore della saga. Comicità slapstick e dinamiche da buddy-movie per un cinecomic che non si prende sul serio e che anzi punta all'intrattenimento. Dichiarazione d'intenti che apprezziamo, nonostante sia un prodotto che vada preso e inteso per quello che è.
👍🏻
Tom Hardy sempre irresistibile.
Alcune battute riuscite.
Il profilo dell'anti-eroe.
Il finale.
👎🏻
La trama, ovviamente fa acqua da tutte le parti.
I personaggi di contorno, meri pretesti.
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Lady Godiva, un capolavoro scolpito nel 1861
dallo sculture inglese John Thomas, una fusione di marmo e gesso che si trova nel museo di Maidstone nel Kent.
Ma raccontiamo la storia di Lady Godiva a cui è ispirato l'opera.
Che il corpo della donna sia troppo spesso usato come un trofeo non è una novità.
Che sul corpo delle donne si facciano troppe battaglie è noto.
Che troppo spesso gli uomini pretendano di usare il corpo delle donne come merce di scambio è storia antica.
Tanto antica che questa storia risale al 1040, quando una donna intelligente cerca di convincere il marito a fare la cosa giusta.
Lui è Leofrico, conte di Mercia, Inghilterra, che a un certo punto pare avesse un po’ esagerato con la pressione fiscale sulla popolazione.
Lei è Lady Godiva, sua moglie, che si dispiace per le condizioni del popolo, oppresso dalle tasse del marito. Quindi cerca di convincere Leofrico ad abbassare le tasse. La gente non ce la fa più, i tributi sono troppo alti e la nobildonna solidarizza con loro.
Ne parla al marito. Forse, ma posso solo immaginare a questo punto, prova a utilizzare la fondamentale strategia del “ti prendo per stanchezza”. Insiste.
Prima di andare a dormire chiede a Leofrico: “Caro, che ne dici di abbassare un po’ le tasse?”.
Mentre fanno colazione ci riprova: “Caro, mi passi il pane, e a proposito, cosa hai deciso sulle tasse?”
Durante la partita di caccia alla volpe: “Amore, allora che facciamo con i tributi?”
Mentre vanno a messa: “Stavo pensando, e se abbassassimo un po’ le tasse? Lo vedi come soffre il nostro popolo?”.
Leofrico la ignora, pensa che prima o poi le passerà, in fondo è solo una fase, poi magari si dedicherà al giardinaggio o al ricamo.
Ma Godiva non demorde. Come ogni donna che si rispetti è tenace e instancabile. Quindi insiste oggi, insiste domani, alla fine Leofrico non ce la fa più.
“Ah sì, vuoi che abbassi le tasse? Lo farò il giorno che tu andrai a cavallo in giro per la città completamente nuda”.
…
Leofrico si sente molto furbo, perché pensa di aver risolto così la questione e di poter tornare alla sua tranquillità domestica.
Quale donna accetterebbe una condizione simile?
Sua moglie.
Godiva dice: “Va bene”.
Come sarebbe: “Va bene?”
“Va bene, andrò a cavallo per tutta Coventry nuda. E tu abbasserai le tasse.”
Ora qui la storia diventa legenda e non siamo sicuri di come siano andate veramente le cose.
Si racconta che Leofrico non potendo ritirare la parola data, emanò un editto con il quale costringeva tutti gli abitanti di Coventry a chiudersi in casa e non affacciarsi alle finestre fino a dopo il passaggio di Lady Godiva.
Secondo un’altra versione fu invece proprio lei a chiedere agli uomini di Coventry di restare a casa.
In ogni caso pare che alla fine il 10 luglio 1040 lady Godiva fece la sua cavalcata, nuda, coperta solo dai suoi lunghi capelli.
E Leofrico non poté fare altro che abbassare le tasse.
Tutto bello, un punto a favore della nostra Godiva che è riuscita ad ottenere quello che voleva. Quello che era giusto. Siamo tutti contenti per la sua caparbietà, la sua tenacia, il suo coraggio. E anche il suo anticonformismo. E forse anche il suo precoce femminismo.
Ma rimane un problema, che da Lady Godiva è arrivato dritto dritto fino ai giorni nostri.
È mai possibile che un uomo che si rivolge una donna che cerca di parlare di cose serie debba delegittimarla fino ridurla a mero corpo? A mero oggetto sessuale?
Sarebbe mai possibile una storia al contrario, con la nobildonna che decide di tasse e balzelli, e il marito che per attirare la sua attenzione deve andare nudo in giro per la città?
Dico oggi, eh mica nel 1040!
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Three acts of desire.
Act one. Waiting.
Stavo nervosa perché ogni giorno ero più vicina al giorno per partire e vederti. Quando ti ho detto che vengo a fare le vacanze con la mia amica nella città dove vivi e se hai il tempo e la voglia di vederci mi hai detto di "Si", sono rimasta sorpresa. Non pensavo e non speravo avere la risposta positiva. E già questo mi ha fatto eccitare. Vederti. Anche solo per un caffè. Mi basterebbe. Toccarti anche solo per caso e sentire il tuo sguardo addosso.
- Ci vediamo alle undici nella strada x vicino alla piazza. - mi hai scritto così e il mio cuore ha cominciato a battere forte.
Lunedì.. sono le 10.00...sto già sulla strada per arrivare al posto d'incontro. Sto molto nervosa di vederti realmente. Molto eccitata. Mi fa male lo stomaco e il cuore che è arrivato in gola. Mi fermo davanti a una vetrina e mi guardo come nello specchio. Non so se questo abito va bene per l'occasione. Non ha le tasche e non so dove mettere le mie mani. Aggiusto i capelli perché mi sembrano sempre fuori posto. Decido che può andare..che se ne frega. Arrivo alla piazza. Troppo presto. Sono le 10.45. Altri quindici minuti di agonia se arrivi in orario. Trovo una panchina e mi siedo. Guardo il telefono per eventuale messaggio, ma niente. Guardo intorno perché non so da dove devi arrivare. Mille pensieri passano per la testa. Se non ti piacessi. Se avrai voglia solo di parlare e bere un caffè. Perché io avevo voglia di scoparti. Dopo tutto ciò che ci siamo scritti sembrava ovvio il senso di questo incontro. Ma non sapevo se era ovvio anche per te.
11.05
Ti vedo di girare l'angolo della strada. Hai guardato il telefono e hai cominciato a cercarmi tra le gente che stava in piazza. Mi sono alzata dalla panchina e ho cercato di farti un cenno con la mano per attirare l'attenzione. Mi hai visto. Hai fatto un sorriso leggero mentre stavi camminando verso di me. Ti guardo e sorrido. Mi dici "Ciao" e apri le braccia per abbracciarmi e salutarmi. Ti rispondo e sento il tuo contatto con il mio corpo. Le guance che si incontrano e le labbra che si appoggiano sopra. Il momento che dura secondi. E poi il tuo sguardo dritto nell'occhi. Vorrei baciarti. Così, adesso. Ma ho paura. Paura di rovinare tutto.
- Come stai? Come è andato il viaggio?
- Tutto bene. E tu?
- Bene, grazie.
- Sono contenta di vederti.
- Anche io. Molto. Stai molto bene con questo abito.
- Grazie
Sentire la tua voce è come una spinta per il mio eccitamento. Prima la sentivo nei messaggi vocali. Ma adesso il quadro si è completato. Mi guardi. So che ti piace guardare. Soprattutto adesso.
- Vogliamo andare da qualche parte a prendere qualcosa?
- Si, certo, però portami tu perché qui non so niente.
Mi sorridi e andiamo verso un bar che sta dall'altra parte della piazza. Ci sediamo. Ordiniamo. Continui a guardarmi. Seguire i miei movimenti. Il tuo sguardo mi da la sensazione di piacere, di essere guardata e forse anche desiderata e anche la sensazione di sconforto perché non sono abituata ad avere tutta questa attenzione. Ma tu esploravi, accarezzavi e baciavi con l'occhi. A questo punto ho sentito i capezzoli duri che spingevano contro il reggiseno. Sicuramente hai notato anche questo.
- Sei bellissima. Hai l'occhi stupendi. Ancora più belli realmente.
- Grazie. - sorrido e giro lo sguardo
Hai allungato la tua mano sul tavolo per prendere la mia. L’hai stretta e accarezzata. E così ho messo l'altra mano sopra la tua. Mi hai fatto qualche altra domanda sul viaggio e cosa devo fare qui nelle vacanze. Sembrava che volevi finire al più presto possibile questa parte formale del discorso e uscire dal bar. E così abbiamo fatto. Mi hai detto di seguirti. Ci siamo allontanati dalla piazza per trovarsi nel quartiere tranquillo e a quest'ora quasi deserto. Ti sei fermato e ho sentito la tua mano sul mio collo che mi spinge sulle tue labbra. E altra mi avvicina a te. Il mio seno si appoggia sul tuo petto. Il tuo primo bacio è leggero. Solo a sfiorare. Solo sentire e capire la mia risposta che è stata più vogliosa. Con la tua lingua hai sfiorato il contorno delle mie labbra. Mi hai guardato di nuovo passando la tua mano sulla mia guancia. Toccando con il dito le mie labbra umide. Lo hai fatto scivolare nella mia bocca giusto per poco. Lo succhiato guardandoti. Hai tolto il dito e mi hai baciato con tutta la voglia che avevi. Non credevo che questo sta succedendo veramente. E ti baciavo come se è un sogno che fra poco sparirà e voglio godere ogni singolo momento. Hai staccato le tue labbra dalle mie.
- Sono bagnata.
- Shhh. Fai la brava.
- Ho voglia di te. Da qualsiasi parte..non importa. Anche in macchina. Ti voglio.
Molto coraggioso dalla parte mia ma avevo paura di perdere tutto questo. Mi hai baciato di nuovo e hai detto "andiamo".
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Il teatro abitato. Per una moltiplicazione degli sguardi e delle voci
E’ stata una residenza intesa e partecipata quella vissuta dalla compagnia teatroINfolle al lavoro sul loro primo progetto creativo. Appena arrivati a Mondaino hanno incontrato gli spettatori e le spettatrici che fanno parte del gruppo Il pane quotidiano. La moltiplicazione degli sguardi. Dopo la visione di alcuni momenti di lavoro della compagnia impegnata nel montaggio di alcune scene di OUTIS. Viaggio per mare, il dialogo si è aperto intorno ai temi del progetto, ai racconti e alla scrittura drammaturgica, alle macchine che animano le scene e alla grande assente: l’acqua. Il mare non c’è, viene suggerito, dai suoni e dai riflessi di luce, dalle parole; al posto dell’acqua polvere e stelle, vento e tempesta ed è li che il pubblico lo scorge il sapore della salsedine, e in quel sentimento del mare che abita tutti i personaggi.
I naufraghi li avevo incontrati nella serata di presentazione Acqua fresca e mite Acqua aperta all'ascolto All'ascolto del e nel vento Il vento che da fuori per una volta vien travolto da chi trova sul proprio passaggio Mio figlio bambino, s'è aggiunto all'onda per vicissitudini familiari Noi abbiam sentito Sentito Sentito tanto Sentito forse non tutto Abbiamo sentito l'acqua che non c'era Abbiamo sentito la voce nei canti popolari di chi non c'è Abbiamo sentito avvertito le persone vicine anche se con una vela su bocca e naso Ci siamo cullati con voi Abbiamo sentito forte e sicuro l'albero maestro di una collettività che ha trovato un approdo di speranza e fiduciaGrazie da parte di Giulio che ha tanto gradito lo spuntino "È gratis!" di fine spettacolo
Giocosamente Manuela, spettatrice e partecipante de Il pane quotidiano
Il nucleo della compagnia si è formato anche sotto le travi del Teatro Dimora e nella natura di Mondaino, quando Teatro Valdoca ha lavorato al progetto Giuramenti; poi teatroINfolle ha preso unendosi proprio intono a questo progetto che tiene insieme tutte le specificità di ogni singolo artista dando vita a un coro di voci e corpi che evoca il mare.
La compagnia ha anche incontrato i bambini e le bambine delle scuole elementari di Mondaino. Dopo due anni, infatti, fatta eccezione per la breve esperienza che si è attivata online per le scuole grazie al progetto Residenze Digitali, è ripartito il progetto la Scuola elementare del teatro e della danza, un’esperienza che consente ai bambini e alle bambine di entrare a stento contatto con il lavoro degli artisti in residenza condividendo con gli artisti riflessioni, immagini, questioni che sia aprono in risposta alla visione. Ed è qui, con i bambini e le bambine, che il teatro ha fatto subito da grimaldello riflessivo sulla realtà. Da una parte le macchine sceniche, progettate dal collettivo veneto, hanno subito evocato nella loro mente le macchine leonardesche riportandoli dritto dritto a un progetto che stanno sviluppando a scuola sull’immaginario di Leonardo Da Vinci, dall’altra la guerra: sono quei suoni, che riverberano di acque profonde e oscurità, i rimbombi elettronici e potenti che evocano subito alla mente dei bambini l’eco della tragedia che non molto distante da qui si muove via via più atrocemente.
Poi è arrivato il giorno della prova aperta aperta al pubblico, anticipata dall’inaugurazione della mostra di disegni di Andrea Bonetti, che ha dato il via ad una collaborazione, della quale siamo onorati, con l’associazione ALMA Animatori un collettivo di artiste e artisti marchigiani che sostengono e promuovo l’arte dell’animazione, del fumetto e dell’illustrazione sostenuti da un parterre di soci internazionali. Durante tutto il 2022 gli spettatori e le spettatrici avrano così l’occasione di entrare nelle visioni dei giovani artisti e delle giovani artiste che saranno ospiti di DEA.
Perdere/Perdersi. E’ questa la parola che mi resta dopo il cortocircuito che i disegni di Andrea prima e le scene di teatroINfolle poi hanno provocato nella mia visione. I disegni, le immagini e i suoni dello spettacolo hanno aperto paesaggi che ci abitano e ci hanno abitato: nell’attraversarli l’idea di viaggio tra immaginari cosi differenti si è sovrapposta connettendosi è sul sentimento della perdita.
Perdere una terra. Perdere vele e timone. Perdere la ciurma. Perdere il respiro. Perdersi lungo una strada grigia, fermarsi davanti a una piccola pianta, verde. Perdere una persona cara. Perdersi nei labirinti dell’immaginazione. Perdere la vita. Perdersi nello scorrere dei giorni. Perdersi nella danza vorticosa che si riverbera da specchi d’acqua. Perdersi in un tempo indefinito, in un luogo misterioso, un teatro che sa di antico. Sentirsi persi in una camera vuota. Perdere, perdersi, lasciar andare.
Apro la porta del teatro e ci sono tanti occhi,sguardi belli Siamo tutti lì col cuore aperto... Subito catturata da piccoli disegni, delicati e potenti che mi hanno fatto sentite carezze e fruscio di ali di colibrì...
Poi lo spettacolo... E ho sentito il sole sulla pelle, il sale sulla pelle, il vento sulla pelle... Quiete, tempesta e voci come i canti delle sirene Corpi che hanno dato tanto e il corpo è la cosa più spirituale che abbiamo... ci aggancia al Tutto! Bravura Unità Bellezza L'ho sentita una serata importante,una ripresa,un battesimo in quel mare E sono uscita felice!
Sandra, spettatrice e partecipante de Il pane quotidiano
#teatro abitato#pane quotidiano#scuola elementare#residenze 2022#teatroinfolle#d.e.a.#alma animatori#la scuola elementare del teatro e della danza
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29 Marzo
29 Marzo Tappa n: 10 Motril Benalmadena
percorrenza 113 km, ascesa totale 965 m tempo in movimento: 6h29m
Curiosità: frequenza respiratoria media 31 brpm, massima 44 brpm
Partenza un po dopo le 8, discesa dalla mia collina fino a riprendere la strada principale ( qualche problema di perdita di itinerario sulle stradine della città, il GPS tenta di farmi fare le cose più strane), e poi circa 10 km più o meno in piano, con quasi essenza di vento: oggi le previsioni lo danno attorno a 20 km/h, da O ed io vado dritto a O.
Fino a Salobrena tutto perfetto e poi iniziano i dolori: la costa è molto scoscesa, la strada principale segue il profilo e, vicino ai paesini, sale molto in alto per fare una specie di circonvallazione, con una diramazione, a volte due, che scendono al paese ma non c'è strada che colleghi i paesini a livello mare. E quindi è un continuo scendere quasi a livello mare e poi risalire in alto ( il max è stato 260 m) ma le pendenze sono notevoli: qualche giorno fa ho fatto lo spuntino di mezzo giorno con due ciclisti locali anche loro fermi e mi hanno confermato che anche per le strade nazionali la pendenza max accettabile è 10 %: e qui la hanno utilizzata a piene mani. Sono stati 35 km piuttosto duri: forse dipende dal fatto che questo è il decimo giorno senza riposo e il fisico lo sente.
Arrivato a Nerjia la strada inizia a seguire il profilo del mare e adesso si avverano le previsioni del tempo: vento da O a 20km/h giusto sul naso, se smetti un attimo di pedalare ti fermi, occorre ridurre velocità e metterci tanta pazienza. Inizia anche a piovviginare un po', ma poco e non metto il giubbotto: il calore che sviluppo asciuga la maglia.
Arrivo a Malaga, strada splendida per attraversarla, con un intera corsia dedicata alle bici, ma molto
lunga, circa 15 km, come attraversare Bari, e, proprio all'inizio , la batteria della macchina fotografica rende l'anima a Dio, ma non ho voglia di fermarmi a cambiarla. Finisco l' attraversamento e mi fermo per lo spuntino e la cambio, ma è tardi ho perso qualche scorcio bello.
L' uscita è un po' più difficile: c'è solo un ponte ed è quello della superstrada che porta all'aeroporto, tre corsie, macchine ai 120km/h, nessuna corsia per le bici: da fare venire un po' i brividi specie quando ci sono le uscite e le entrate laterali, comunque tutto bene, come direbbe Montalbano, santiando un po.
Arrivo al luogo di sosta, piccolino, non ho trovato alberghi ma un appartamentino: perfetto.
PS: ieri sera la connessione internet è saltata: pubblico con un giorno di ritardo.
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A Gela in 15 anni sono nati 450 bambini malformati. Ma sulle loro vite è calato il silenzio Gela. Orazio osserva ma non vede. Non parla ma agita le mani per esprimere la sua felicità o la sua tristezza improvvisa, seduto in braccio alla mamma su una panchina di un distributore di benzina che qui, nella Gela urbanizzata senza regole, è diventato un po’ tutto: luogo di ritrovo per i ragazzini all’ora dell’aperitivo, svago per le famiglie grazie alle giostrine sul prato finto, fermata per i tir che percorrono il Sud più a Sud d’Italia, da Ragusa verso Agrigento. La mamma, Giovanna Gastrucci, lo tiene stretto appoggiato sul suo fianco nonostante il peso, da lontano svettano ancora le due torri ormai senza fumo della grande raffineria dell’Eni, da tempo chiusa e in fase di riconversione. Orazio ha sei anni, è nato con una cecità quasi totale e la spina bifida. Le sue emozioni profonde le capisci dagli occhi nerissimi che dicono più di mille parole. «Mio figlio, tra i bambini di Gela con malformazioni, è uno dei più gravi. Quando è nato, un ginecologo mi aveva proposto addirittura di abbandonarlo in un centro dopo aver saputo della malformazione, ma io non ci ho pensato un attimo. È mio figlio, non lo abbandonerò mai, anche se a Gela sono stata io ad essere abbandonata da tutti. Non ci sono centri di recupero, istituti dove fare terapie, nulla di nulla. Anche una sua cuginetta ha la stessa malformazione, anzi forse più grave». «E una parente di mio marito ha un problema molto serio», aggiunge la cognata di Giovanna, seduta accanto a lei su questa panchina che dà su cinque colorate pompe di benzina. Di famiglia in famiglia, di parente in parente, di voce in voce, a Gela tanti hanno un legame più o meno diretto con qualche caso di bambino nato malformato dagli anni Novanta ad oggi. Questo angolo di Sicilia adagiato verso il mare che guarda dritto all’Africa ha tra le percentuali più alte d’Italia e d’Europa per malformazioni congenite. Qui nell’arco di meno di quindici anni sono nati almeno 450 bambini malformati, uno ogni 166 abitanti. Un numero enorme, se si pensa che a Taranto, una delle aree più inquinate, in rapporto alla popolazione ne sono nati due volte di meno, uno ogni 331 abitanti. Cifre comunque approssimative perché da queste parti non c’è stato mai un monitoraggio costante delle malformazioni e un controllo capillare delle nascite nelle famiglie che vivono a Gela (...) Ma quando li abbiamo contati, ed è accaduto soltanto una volta, i casi erano abnormi, troppo alti rispetto ad altre parti del Paese e dell’Europa», dice Sebastiano Bianca, genetista dell’ospedale Garibaldi di Catania incaricato nel 2012 dalla procura gelese di fare uno studio sulle malformazioni neonatali. Una ricerca che come le altre sull’inquinamento di questa città si è fermata all’ingresso dei cancelli dell’Eni: uno sbarramento che la procura di Gela non ha potuto mai oltrepassare, perché nei tanti processi, conclusi o in itinere, ancora non si è arrivati a dimostrare un nesso causale tra la grande raffineria che dagli anni Sessanta ha portato lavoro, fumi e mercurio, e i casi di tumori e malformazioni. Il professore Bianca nel 2015 consegnò una perizia, pubblicata allora in esclusiva dall’Espresso, che analizzava dodici casi di malformazioni e li legava l’inquinamento della raffineria. Si legge in quella perizia: «Il collegio della commissione tecnica… ritiene che la possibilità che la spina bifida di Kimberly Scudera (atleta paralimpica, ndr) sia stata favorita dalla presenza nell’ambiente di sostanze chimiche prodotte dal polo industriale sia del tutto concreta». Dopo questo scoop dell’Espresso su Gela è calato il silenzio. L’Eni si difende ribadendo che «nel giugno 2018 il Tribunale ha emesso una sentenza di merito con la quale ha escluso, anche solo ai fini civili, l’esistenza di un nesso di causa tra il presunto inquinamento di origine industriale e un caso di malformazione neonatale». A breve si concluderà invece un secondo processo civile che vede cento famiglie chiedere un risarcimento da 80 milioni all’Eni, tutte difese dall’avvocato Luigi Fontanella. Dal Palazzo di Giustizia fanno osservare che a differenza di Priolo, dove l’Eni con una sua controllata ha riconosciuto un ristoro da 11 milioni ad alcune famiglie con bambini malformati ma senza arrivare ad un processo, a Gela il cane a sei zampe ha risarcito soltanto un’azienda per inquinamento, la Lucauto, che ha incassato oltre un milione di euro: si tratta di una concessionaria di auto con sede accanto allo stabilimento, appena sequestrata perché appartenente ad imprenditori che per la Dda di Caltanissetta avrebbero riciclato i soldi del clan mafioso dei Rinzivillo. Alla mafia, insomma, qualcosa sarebbe arrivato per l’inquinamento della raffineria. (...) Di Gela non parla più nessuno. Tranne qualche testimone, come il ginecologo Michele Curto, in servizio all’ospedale fino al 2015, che con le sue mani ha fatto nascere centinaia di bambini e tanti malformati: «Ricordo bene cosa accadde in particolare in alcuni anni, tra il 1993 e il 1998. Ci arrivavano decine di donne con gravidanze difficili, allora non c’erano molte strumentazioni per diagnosi complesse prenatali, e così tanti bambini nascevano con malformazioni molto gravi. Quello che mi ha sempre colpito è stata la vastità della tipologia di malformazioni, che non aveva riscontro in altre aree d’Italia. Quando sono andato in pensione ho cercato di ricostruire dei dati, ma non ho trovato più le cartelle cliniche e le nostre segnalazioni: alcune erano in un deposito e mi hanno detto che sono state rosicchiate dai topi». (...) Nel suo studio in via Benedetto Croce, nel groviglio di case a due passi dall’ospedale (a Gela un piano regolatore c’è, ma solo sulla carta) Antonio Rinciani, pediatra che sulle sue t-shirt si fa stampare i personaggi dei cartoni per far sorridere i bambini, ha uno sguardo malinconico: «In questa città non cambierà nulla, anche a causa di una classe politica che non ha voluto cambiare le cose. È la cosiddetta schiavitù del bisogno: il lavoro viene prima della salute». Il pediatra nei suoi quasi trent’anni di professione ha visitato centinaia di bambini con problemi e ha cercato di capirne di più, trovandosi però davanti fin da subito un muro di gomma: «Un feto a Gela può essere esposto a circa 200 sostanze chimiche e questo ha numerosi effetti sulle donne in gravidanza. Qui è calato il silenzio. La raffineria è chiusa e in riconversione, la speranza è che torni a dare lavoro, la certezza è che nessuno crede a un futuro migliore. L’ex sindaco Rosario Crocetta sul lungomare fece appendere una targa con una frase di Quasimodo: «Sulla sabbia di Gela colore della paglia mi stendevo fanciullo in riva al mare, antico di Grecia con molti sogni, nei pugni, stretti nel petto». La sabbia è tornata gialla, da quando il petrolchimico ha chiuso i battenti. I sogni, quelli, sono svaniti per sempre. di Antonio Fraschilla e Alan David Scifo
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insomma oggi sono stata da mio zio a mangiare il sushi, molto buono per essere stato fatto in casa, ed eravamo sei persone precise e siccome ho messo una foto su ig e due miei zii hanno insta hanno cominciato a elogiarmi ma sappiamo tutti che i complimenti dei parenti non valgono e io così 🤡 poi però è arrivato per il caffè il futuro marito di mia cugina e hanno cominciato a parlare della casa che stanno costruendo e io di nuovo così 🤡 ma anche 😔💔 poi mi sono scolata due bicchieri di rosso perché sì e ora mi sento in colpa perché ho dato un bacetto a mia zia che è un soggetto debole ma l'ho fatto senza pensarci, non volevo infrangere le regole perché un bacetto alla zia lo davo sempre e oggi non ho ripensato al covid :( ma un'altra cosa bella, oltre al cibo, è stata che nessuno mi ha fatto domande sullo sposo (qui non si dice il ragazzo o il moroso, ma direttamente sposo anche se non c'è nessun matrimonio di mezzo). Poi mi sono fatta una passeggiatina per ritornare a casa e ho visto il mio ex stalker e ho tirato dritto a testa ancora più bassa e dopo qualche ora passata al pc adesso mi metto nel lettino a far finta di non pensare :) b.domenica.
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International Dance by Pietro Gagliostro: una primavera piena di musica con Voodoo, Mitch B., Alex Phratz, Sergio Mauri
Dopo il dj set di sabato 15 maggio quando al mixer del programma è arrivato Outwork, dj producer italiano conosciuto in tutto il mondo per il suo sound, il 22 maggio International Dance dà invece spazio al sound di un progetto musicale pubblicato dall'italiana Jackpot Records, i misteriosi VOOODOO.
Il sabato successivo, ovvero sabato 29 maggio, è invece la volta del dj producer italiano Mitch B., davvero scatenato in questo periodo tra produzioni e performance nella sua città, Ravenna, in occasione dei 700 anni dalla morte di Dante. Sabato 5 giugno, invece, è la voce di Alex Phratz, mentre il 12 giugno arriva Sergio Mauri, entrambi ben conosciuti da chi segue il panorama della dance Made in Italy e dintorni.
Avete appena letto i dj set in programma nello show radiofonico di Pietro Gagliostro in onda ininterrottamente da trent'anni in FM. E' International Dance, che va in onda ogni sabato alle 21:30 sulla calabrese Radio Medua e in diversi formati ed orari anche su un circuito italiano ed internazionale che conta ormai molte emittenti.
La voce, l'energia e la selezione musicale di International Dance sono quelle di Pietro Gagliostro. "International Dance è interamente prodotto con l'uso di cdjs, piatti, mixer e nessun software tipo Traktor o Serato", spiega Pietro, che punta dritto al cuore della questione, ovvero propone musica e dj set di qualità, che regalino emozioni.
Al link qui sotto trovate una sua lunga intervista, perfetta per raccontare almeno un po' della sua passione musicale. Trent'anni di musica, a parole, infatti non si possono mica raccontare… Almeno un po' del giusto mix, però, anche a parole, si sente bene. Eccome. Ecco il link all'intervista: http://bit.ly/AllaDisco-InternationalDance
https://www.radiomedua.it https://www.facebook.com/groups/internationaldance
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2. Costantin. Luci notturne.
Pensieri di Costantin D’Orsay.
Sono al massimo dell’euforia. Vorrei ridere, vorrei gridare di gioia, vorrei cantare, vorrei... Mi sento come se potessi TOCCARE IL DANNATO CIELO!
Io, Costantin D’Orsay: lo stupido, l’incapace, il fallito, quello che non avrebbe mai concluso nulla nella vita, sono ad un passo dal diventare il nuovo governatore di Teer Fradee. Ed il merito è tutto tuo padre e di quell’ordine che hai dato, probabilmente nella sola speranza di eliminare per sempre il mio volto dalla tua vista e la mia voce dalle tue orecchie. Ma non sparirò, io farò davvero la differenza in questo Nuovo Mondo: sarò un governatore eccellente, farò in modo che tu abbia di che ricrederti padre e… forse..
...magari allora chissà... riuscirai a volermi bene, certo non quanto ne hai voluto a mio fratello, ma almeno ad accettare la mia esistenza, ad accettare il fatto che anche io sono tuo figlio…
Mi manca sai? Ogni volta che chiudo gli occhi vedo ancora il suo volto devastato dalla sofferenza ed il suo sguardo vuoto, incapace di cogliere la nostra presenza, tra i deliri e la febbre di quelle ferite per me troppo difficili da capire. Rivedo tutto, compreso il tuo dolore e poi quella rabbia che mi riversavi addosso, una rabbia che è presto diventata odio.
“Perchè non sei morto tu al suo posto?” Non lo so padre, non lo so.
Non ho mai desiderato la morte di Simon, ma non voglio morire. Sento di poter dare qualcosa a questo mondo, DESIDERO davvero fare la mia parte.
Può apparire improbabile, ma ti assicuro che è così.
Amo la vita, ed anche se non mi lasciavi avvicinare al suo capezzale, ho promesso a Simon che avrei vissuto appieno ogni giorno, che lo avrei fatto anche per lui.
Luci notturne
Sembrava una notte come tante a Sérène, un cielo nero ricoperto dalle solite nubi scure sembrava voler cancellare per sempre il chiarore delle stelle.
Ma per strada sopravvivevano sparuti fuochi: i fuochi solitari delle vie, minuti, di gruppi di poveracci sfrattati via da una casa appestata, o semplicemente troppo poveri per permettersi un tetto, ed i grandi roghi comuni nella Piazza dei Principi, cataste di corpi senza più un’identità e spesso senza neanche più un parente o un conoscente ancora in vita che potesse piangere per loro. La chiamavano Malicore: un male che da oltre quindici anni devastava il Continente, lasciando uomini e donne senza un rimedio, senza una cura e senza speranza, in preda a dolore e follia, in un viaggio lento e terribile verso una morte atroce.
Il degrado di Sérène sapeva stimolare tutti i sensi: la sporcizia e l’odore di urina si mischiavano ai rivoletti fangosi che costeggiavano le vie ed i vicoli. Pochi dettagli distinguevano gli ambienti sicuri da quelli più malfamati, a riconferma che Sérène non era un luogo per stranieri, in cui girare tranquillamente.
Ad un tiro di sasso dall’iperattivo porto, brillavano altre luci, quelle della taverna in festa, nonostante tutto. Un gentile rampollo figlio del signore locale, il Principe D’Orsay, aveva sperperato una mezza fortuna per assicurarsi che il taverniere offrisse da bere alla sua salute a chiunque mettesse piede in taverna quella sera. Tre ore dopo, la stanza era un miscuglio di odore di alcool e sudore, nel locale sovraffollato erano radunati uomini e donne di ogni estrazione sociale. Qualcuno cantava, altri ballavano, alcuni amoreggiavano con prostitute a basso costo ed altri si limitavano a bere, il motivo di tali festeggiamenti, però, si era perso di vista da oltre due ore per buona parte dei presenti.
Seduta su una panca dirimpetta alle scale che conducevano al piano interrato, Célie De Sardet osservò la bolgia mischiarsi in un turbinio di colori. Il sorriso d’occasione stampato sul volto arguto, si era ormai trasformato in una sequenza di smorfie e sbadigli, nel tentativo di rilassare la mascella e fingersi impegnata quando il tizio accanto a lei, un borghesotto, tornò alla carica con domande a cui avrebbe risposto più volentieri con un’arma da fuoco, piuttosto che con la propria voce.
<Dunque…> no, per favore, non un’altra domanda... La testa sembrò voler esplodere, aveva esagerato con il vino, ma per quello persino Kurt si era messo in pace l’anima. L’indomani sarebbero partiti, lei e suo cugino Costantin, l’indomani avrebbero fatto il primo passo verso la cura. Come se fosse stato evocato magicamente, il capitano della Guardia del Conio le si sedette accanto proprio in quel momento. Nonostante sostenesse l’esatto opposto, il capitano si era sempre impegnato parecchio per proteggere i due principini, e con una notevole inventiva tra l’altro, a discapito degli sfregi sul volto, che gli conferivano sicuramente un’aria più truce, l’ex-mercenario possedeva un cervello sveglio e creativo.
Mise un braccio attorno alle spalle della sua giovane protetta e puntò gli occhi azzurri sulla figura del borghesotto, sfidandolo con una spocchia aristocratica che non gli era mai appartenuta e che spinse De Sardet a roteare al cielo gli occhi, divertita ed oltraggiata al tempo stesso.
<Mia cara, gli hai già spiegato che fine fanno quelli che puntano ai gioielli della corona?>
Ovviamente De Sardet decise di stare al gioco <Kurt, ti prego… non davanti a tutti…>
Dopo una breve occhiata al volto di Kurt, l’uomo percepì che non valeva la pena mettersi contro ad una guardia del conio. L’ex-mercenario ritirò il braccio e passò una tazza a De Sardet, una brodaglia calda e fumante, l’ideale per sperare di affrontare un’emicrania da sbronza.
<Ho perso il conto di questi buffoni. Intendi restare qui a lungo Sangue Verde?>
<Mi odieresti se ti dicessi di si?> lo provocò lei occhieggiando da dietro la tazza. Kurt non rispose ma il suo sguardo fu sufficientemente minaccioso da indurre un sorriso nella giovane donna.
<Cerchiamo Costantin, dubito che voglia venire con noi ma dobbiamo almeno provarci.> De Sardet si mise in piedi, Kurt la anticipò per aprirle un varco nel mucchio di gente, mentre scendevano le scale verso il piano inferiore. Costantin fu… relativamente facile da trovare, si era improvvisato una sorta di harem, con una prostituta seduta a cavalcioni di ogni gamba ed una terza in piedi accanto a lui, che tra moine e sussurri maliziosi, insinuava impunemente una mano nella sua camicia slacciata per convincerlo ad appartarsi con lei. Un tentativo che, a giudicare dalle attenzioni che il ragazzo concentrava su di lei, sembrava stesse andando a buon fine.
De Sardet mise le mani sui fianchi e rivolse alle donne uno sguardo di puro biasimo, qualcosa che solo lei sarebbe riuscita a fare, protettiva com’era nei confronti del cugino. Il principino D’Orsay in fondo era un bel giovane, con grandi occhi azzurri, capelli biondi ed una buona fisicità, frutto dei severi allenamenti di Kurt.
<Mia adorata cugina!> anche sepolto vivo da quelle signore del peccato, Costantin riuscì a percepire la presenza di De Sardet e ad allargare le braccia per accoglierla in una sorta di abbraccio a distanza. Avrebbe sempre trovato un posto per lei, il suo affetto era sincero, e non si sarebbe mai fatto alcun problema a manifestarlo. Cercò persino di ottenere un po’ di tregua dalle tre donne, con scarsi risultati, lo sguardo di rimprovero di De Sardet sembrò infiammare il loro spirito di competizione. <Ti stai… divertendo?> chiese Costantin. <Io torno a casa cugino, è molto tardi, vieni con noi?>
Costantin provò a sollevarsi dalla sedia, ma quelle tre, ormai alleate, non gli lasciarono molto spazio di manovra. Il ragazzo ridacchiò, poggiando una mano su un fianco della rossa seduta sulla sua gamba sinistra. L’altra, la mancina, la sollevò per fare un cenno, indice alzato e dritto, per cercare di sancire una tregua con la donna. Tornò in breve a rivolgersi alla cugina <Finisco di conversare con queste damigelle e rientro anche io cugina. Kurt…>
<...non ti preoccupare eccellenza, la riporto a casa sana e salva.> Concluse per lui l’ex-mercenario.
Costantin non fece in tempo a vederli andare via, le prostitute tornarono alla carica, più audaci e sfrontate di prima. Il giovane principe cercò di respingerne un paio, ma lo fece con la grazia di uno dei suoi sorrisi gioviali e le braccia allargate in segno di resa.
<Mie signore, fosse per me vi sposerei tutte e tre ma temo di essere dannatamente a corto di denari questa sera…> prese a tastare lungo la camicia e poi i lati dei pantaloni in corrispondenza dei fianchi, alla ricerca di un tintinnio metallico che non sarebbe mai arrivato. Come se avesse pronunciato una formula magica le tre si allontanarono come se gli avessero appena visto cambiare colore e forma, ridacchiando cercò di trattenerne almeno una, afferrandole il polso con dolcezza <...magari a credito?>
Sospirò nel vederla andare via, certo di averle strappato almeno una risata. Si rimise in piedi, immaginando con ottimismo la faccia sorpresa di sua cugina quando l’avrebbe raggiunta lungo la strada per casa. Si era promesso di non esagerare troppo questa sera, ed anche se barcollava come se fosse sul ponte di una nave in piena tempesta sapeva di essersi ridotto in stati ben peggiori negli anni passati.
Trovò un cappello e lo incalzò in testa, non era certo fosse il suo ma la misura sembrava corretta, almeno finchè non mosse la testa e quello scivolò lungo la fronte sino a coprirgli gli occhi, il farsetto ricamato invece sembrava calzargli decisamente meglio, lo abbottonò sbagliando un paio di asole e dunque si incamminò su per le scale verso il piano principale e l’uscita. Non arrivò alla porta.
Quello che Costantin non poteva sapere, era che quel farsetto apparteneva a Ignace Richard, un giovane nobilotto dai capelli biondastri che, giusto la sera precedente, aveva perduto diversi soldi al gioco. La prima cosa che vide fu proprio il pugno che lo colpì in pieno volto, ancora prima di capire che cosa stesse succedendo era già impegnato in una rissa che dilagò a macchia d’olio nel salone principale.
Uno degli assalitori lo afferrò per il bavero, Costantin gli afferrò i polsi per trattenerlo e gli assestò un calcio frontale. Un secondo gli prese il braccio e lo colpì al costato, il dolore fu lancinante, tuttavia la parte peggiore fu quando il terzo lo scaraventò con la schiena su uno dei tavoli: lo caricò a testa bassa e fece in tempo a prendersi un paio di gomitate sui reni prima di riuscire a scaraventarlo sul ripiano, fracassando legno e stoviglie con un frastuono allucinante.
A dispetto di quanto il suo carattere facesse pensare, Costantin era stato allenato da Kurt molto più a lungo di sua cugina, e dunque risultò più complicato del previsto, per i suoi assalitori, metterlo ko.
Il più tarchiato se lo caricò su una spalla, per poi spingerlo contro la porta, le ante cedettero facilmente all’irruenza ed un attimo dopo Costantin si trovò riverso a terra in strada, dolorante, con il naso pieno dell’odore nauseabondo delle strade di Sérène e con quei tizi attorno a lui come lupi feroci a prenderlo a calci, poi il buio.
Riaprire gli occhi fu qualcosa di terribile, il sole, per quanto offuscato dalle solite nuvole grigie di Sérène e dalle assi che sigillavano la finestra, fu come uno schiaffo in faccia. La testa, pulsante, faticò a rimettere insieme pezzi e ricordi della sera precedente, ma quando finalmente riuscì a comprendere in che genere di guaio si fosse cacciato, il suo primo pensiero fu per sua cugina e per la marea che ormai sarebbe dovuta essere prossima, sperò che non fosse troppo tardi.
Quei tizi lo avevano spogliato del cappello e della giacca, ed ovviamente anche di ogni singola moneta ed oggetto di vago valore che potesse avere avuto indosso, stivali compresi, ma almeno non lo avevano legato. Si erano limitati a chiuderlo dentro ad una stanza senza apparenti vie d’uscita, nonostante i suoi tentativi nè la porta nè la serratura sembravano voler cedere, nemmeno a spallate.
<Signori! Sono sicuro che si tratta di un malinteso!> non importava quanto le sue stesse parole gli rimbombassero in testa, continuò quella nenia come un gatto in calore, camminando avanti ed indietro per quello sputo di stanza, continuando ad alzare la voce <Sono Costantin D’Orsay, figlio del principe Claude D’Orsay! So di per certo che si tratta di un equivoco e sono disposto a perdonarvi, ho troppi affari urgenti da sbrigare!!!>
Andò avanti per ore e non si fermò neanche quando gli si seccò la gola, poi sentì alcuni rumori all’esterno, forse venivano a consegnargli il pranzo o forse, decisamente più probabile vista la situazione, era riuscito a indurli a salire ad annerirgli l’altra metà della faccia, almeno avrebbero aperto la porta.
Ebbe pochi secondi per agire, e si impegnò per non sprecarne nemmeno uno, fu probabilmente per questo che non si accorse immediatamente che la persona che aveva appena aperto la porta, e che lui aveva scaraventato contro al muro violentemente trattenendola per il collo, non era altri che De Sardet. Se la trovò davanti con gli occhi sgranati, la voce strozzata a chiamarlo per nome.
<Costantin! Costantin sono io!>
<La mia adorata cugina!> La perplessità lasciò il posto ad una risata sollevata. L’abbracciò, la strinse con forza, in qualche modo doveva mostrare al mondo quanto fosse sinceramente felice di vederla, ma il tempo stringeva. Célie gli mise sulla testa il cappello ed il farsetto sulle spalle, ed arricciò il naso.
<Puzzi, sei pesto ed hai un aspetto orribile, ma stai bene! Vieni adesso, la nave sta per salpare!>
lo tirò per un polso, e lui non fece altro che rendersi la sua bambola di pezza e lasciarsi tirare, adorava quella sensazione: il calore dell’affetto, di quel legame che per anni li aveva tenuti insieme, come fratelli o, se possibile, molto di più. Non riusciva ad immaginarsi senza di lei e trovava assurdo come anche lei sembrasse condividere lo stesso pensiero.
Rimase indietro di un paio di passi, se non altro per chinarsi ed avanzare a saltelli mentre si infilava gli stivali che Kurt gli passava.
<Dobbiamo sbrigarci> continuò lei, con l’animo del condottiero <tuo padre ci ha mandato a cercarti, era preoccupato per te.>
Costantin avvertì l’aria scomparire dai suoi polmoni, di colpo. Rimase immobile, incapace anche solo di camminare, un lungo respiro fece da anticamera ad un tono lontano, distante, melanconico. <Mio padre…> non ce l’aveva con lei <...quando mai si è preoccupato per me?>.
Una domanda a cui nemmeno Célie sembrò riuscire a trovare risposta.
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cap 1 Tu ed Io ,SilverV ita
allora eccomi qui, il primo capitolo vero e proprio della mia SilverV è pronto. Devo avvertire di un certo linguaggio esplicito e i contenuti sono forti, perciò a discrezione dei lettori, mi raccomando. Però spero che chi apprezzerà se la godrà appieno, questi due mi hanno preso il cuore e me lo hanno sbriciolato, devo sfogarmi XD La prospettiva di Johnny è davvero un must, non riesco a fare a meno di scrivere guardando le cose dai suoi occhi ;__;
“Ammetto di non essere mai stato un campione di tatto, e il fatto che io abbia cercato di ucciderla la prima volta che ci siamo incontrati lo dimostra, ma spero solo in un momento di comprensione: dopo tutto quello che avevo passato e la merda nella quale avevo nuotato fino a quel momento, l’impatto con dei sensi e ormoni non miei, la scarica di adrenalina, nervoso e rabbia che portavo durante i primi due giorni dal risveglio nella sua testa rivoltata, mi stava facendo sentire come se fossi, dalla mattina alla sera, sotto acidi tagliati con il borotalco.
E la nicotina, oddio, ora sentivo di nuovo, anche se a tratti e in non poco ritardo, la botta che mi mandava al cervello quando lei passava accanto a qualcuno con una sigaretta accesa. Mmmmm…. Non dico che la prima volta che l’ho sentita di nuovo avevo quasi il durello, ma ehi, che posso dire, sono un uomo che gode dei piccoli piaceri della vita.
La situazione comunque era un casino, e appena mi fu spiegata per bene nonostante il mio approccio diciamo poco diplomatico della prima notte, non sapevo se ridere, piangere, incazzarmi come un animale o procurarmi altre due testate termonucleari, così, giusto per.
Lei, però, davvero era l’unica cosa che non mi riusciva di capire.
Ricapitolando quindi il vecchio mi aveva rinchiuso in uno stramaledetto chip, il Relic, ok, e infilato di forza nel Mikoshi come un fottuto engramma, perfetto. V, 50 anni dopo, decide di accettare un lavoro da quel grassone infame di Dex de Shawn–mmm e qua già sarebbe da farsi un paio di domande sulla sanità mentale della tipa o se è solo affetta da galoppante stupidità- e ok, un lavoro poi che prevedeva l’infiltrarsi nella camera di Yorinobu Arasaka al Konpeki Plaza –mmmpf sto cercando di non ridere ma è dura-, rubare il chip e scappare come se niente fosse, convinta che sarebbe filato tutto liscio.
Ma sono solo io il solito rompicoglioni o già, qui, la storia sembra un delirio?
Lei e quel genio del suo choom pensavano davvero di riuscire a fare una cosa del genere solo con un bot e una mezza specie di netrunner, armati di coraggio e belle speranze, senza nemmeno un lanciagranate e per di più convinti che sarebbero entrati ed usciti come se nulla fosse? Al Konpeki. Nella suite dell’erede della più potente corporazione al mondo.
Per carità, riposino in pace, soprattutto Jackie, sembrava che per lei fosse qualcuno di importante, però dio mio, stupidi come delle mattonelle, eh.
Ma meglio non divagare, o rischio di perdere qualche dettaglio veramente succoso.
Dicevamo, infatti, come la festa sia proseguita a pieno regime dato che nel mentre si è ritrovata testimone dell’omicidio di quello che credevo un everlasting Saburo Arasaka ad opera del figlio prima che lo stesso, dovendo ricordare a tutti quali sono i metodi di famiglia, facesse in modo tale che venisse accusata proprio lei del fattaccio, piccola passera coraggiosa, -e andiamo avanti che migliora- , il tutto prima di venire silurata con un proiettile in testa da Dex che, ovviamente, a questo punto non voleva saperne più un cazzo dell’affare e di conseguenza aveva giustamente pensato di far sparire ogni prova del suo coinvolgimento nell’affare più fallimentare di tutta Night City.
Per concludere, come non citare il piccolo dettaglio che il proiettile era andato a farsi un drink nella stessa testa dove la sua mente illuminata aveva deciso di infilare il prototipo sperimentale di un chip che per fortuna l’ha riavviata, diciamo, grazie a delle nano macchine che avevano iniziato a ricostruire e adattare l’ambiente ma che al tempo stesso in ogni caso, l’avevano condannata a morte dato che non poteva rimuovere il chip o moriva seduta stante e rendevano me una specie di tumore che avrebbe fatto il lavoro dove il piombo non era arrivato.
MMMMM…
Ma nella testa di chi sono capitato.
Le cose comunque non erano cambiate, la mia occasione era arrivata, e stavolta li avrei distrutti, tanto non avevo più niente da perdere e mi sarei preso tutto quello che serviva per poter raggiungere il mio scopo, anche il suo corpo, non dovesse cooperare. Quindi meglio corciarsi le maniche, non frignare e trovare il modo per farle muovere il culo.
Certe volte era veramente testarda come un mulo e quando non mi voleva stare a sentire potevo urlare e insultarla quanto voglio maledetta joytoy mancata, tanto continuava a fare il cazzo che le pare.
Però è strano, V, anzi Valerie, -sono abbastanza certo di aver sentito qualche eco nella sua memoria chiamarla così, bel nome- non sembrava odiarmi, nonostante tutto. Anzi, quando sparavamo cazzate giusto per allentare un po’ la tensione, lei addirittura sembrava divertita, e quando sorrideva, io, io mi sentivo meno incazzato.
Decisamente, non la capivo
Le avevo detto poi di non andare all’incontro col corpo ratto, quel Takemura, era solo un altro che cercava di fotterla per riguadagnarsi i suoi begli impiantini di merda, per leccare il culo portando la sua testa come trofeo e ripulirsi il completo prima di tornare in servizio, ma niente, se non voleva stare a sentire, non sentiva. Solo perché l’aveva tirata fuori dalla discarica dove l’aveva scaricata Dex, credo sia stata convinta per un bel po’, di dovergli qualcosa, che magari fossero amici, quindi dato che lui la trattava con gentilezza, sembrava sbrodolare ogni volta che apriva bocca.
E qua avevo iniziato a dubitare, devo dire, che il problema potesse essere mio, ma non nei confronti di Takemura, nei suoi. A me non sconvolgeva l’atteggiamento del corpo merda che si vedeva stava aspettando solo il momento giusto per piantarle una lama nello sterno prima di portare, scodinzolando, l’osso in bocca ai padroni, quanto lei così, così, fottutamente ingenua. Se vivi abbastanza a lungo a Night City, la tua innocenza è solo una macchia di sangue secco sul soffitto, e quella che chiami ingenuità ha il volto della ragazzina o del ragazzino massacrato nella limousine del corporativo di turno che col sorriso stampato sul tesserino, fa versare dall’azienda, il benservito alla famiglia: quindi no, smettiamola con le cazzate, sono stanco delle favolette della buonanotte, non può essere innocente, non può esserlo.
Anche lei ha sangue sulle mani e parecchio da quello che ho potuto vedere in qualche flash dei suoi ricordi, la ragazza ha talento per uccidere, glielo devo riconoscere, quindi non diciamo cazzate.
Ma mi faceva sentire strano vederla comportarsi in questo modo, tutto lì.
Quindi, non sapendo come sfogare la frustrazione che la cosa mi procurava, volevo fare in modo tale che almeno il viaggio fino al suo appartamento dopo l’incontro, fosse veramente esilarante. Le avrei rotto le palle come poche altre cose al mondo.
“V, non ti facevo così moscetta comunque. Che cazzo stai facendo con Takemura. Ti devo ricordare che era la guardia del corpo della vecchia mummia? Cosa credi che gliene possa fregare di te? Vedi di lasciarlo perdere prima possibile, te l’ho già spiegato, troviamo il modo di rintracciare una mia vecchia amica netrunner, ma coi contro cazzi, non le mezzeseghe a cui sei abituata tu, e penserà lei a tutto. Liberare te di me così il tuo povero cervellino non finirà per friggere completamente, e aiuterà me a liberarmi di te, devastando soprattutto il Mikoshi nel mentre, il che non guasta”, le sibilai all’orecchio mentre riprendevamo la moto.
“Ah mio principe dal cromo scintillante, scusami, come ho fatto a essere così cretina. Indipendentemente dal fatto che ancora non ho la più pallida idea del come navigare nel cyberspazio per rintracciarla quindi devo procurarmi le attrezzature o ti attacchi al mio cyberware, dici che in ogni caso dovrei crederti sulla parola senza fare un fiato e non dovrei assolutamente cercare ogni strada alternativa in grado di salvarmi la vita. Sei veramente un coglione”, -ok 1 a 0, ma non ti abituare troppo ragazzina-.
“Coglione comunque e manco poco, perché indipendentemente da tutto, Takemura mi ha detto una cosa importantissima. Abbiamo in zona, anche se col culo parato dalla Kang Tao, il creatore del Relic, Hellman. Dai che se vuoi ci arrivi anche tu, fai il bravo: la tua amica sarà pure un drago di netrunner, chi cazzo se ne frega, ok, ma se permetti è normale che voglio andare a dare una ripassata al creatore della merda che ho in testa.
Meglio di lui chi potrebbe sapere come aiutarmi. Poi va bene, andiamo anche dalla tua amica e facciamo quello che ti pare, ma devo provarle tutte. Cristo è il mio il cervello che sta andando a puttane, il mio corpo che sta andando a farsi fottere... Io, io devo fare di tutto, non posso fare altrimenti, ci devo provare…”, concluse prima di calarsi il casco.
E fu lì che sentii per la prima volta qualcosa, dopo tanti anni. Nitido e spaventoso come un fulmine in mezzo all’oceano, un dolore nel petto così forte da mandarmi quasi al tappeto. Ci aveva messo poco a scomparire, ma il male che aveva fatto mi aveva ridotto quasi in lacrime. E non capivo da dove provenisse, cosa me lo avesse provocata, cazzo non c’era più un cuore da infartuare, delle vene da far esplodere o dei polmoni da perforare, per cui era assurdo un simile malore e, nonostante non ce ne fosse bisogno, mentre lei accelerava dritta verso il suo appartamento, mi strinsi a lei; avevo bisogno di non sentirmi solo.
Lì, capii. Un piccolo fantasma sensoriale attivava i suoi nervi dove tenevo le mani conducendomi con i sensi tra le sue costole su per l’aorta, di fianco la pleura e dritto al cuore: era il suo cuore, quello che aveva fatto lo scherzo qualche momento prima, non il mio. Il suo. Il chip evidentemente lavorava giorno e notte per fottere il suo sistema nervoso e rendere l’ambiente adatto a me, ma lo stava facendo ad un prezzo che non avrei mai permesso venisse pagato per colpa mia, non potevo. Io…no. Dovevo accelerare i tempi.
…Scusami V, mi dispiace, sussurrai dentro di me.
“Fai come ti pare allora, che ti devo dire. Però muoviti, il tempo scorre in fretta, il tuo tempo, non so quanto ci metterà quell’affare che hai in testa a finire il lavoro e se lo finisce, si porta dietro entrambi. Hai almeno un fixer a cui rivolgerti per chiedere aiuto? Qualcuno che ti possa procurare le armi o un minimo di squadra? Se dobbiamo andare a bussare alla Kang Tao col completino da scout, prevedo cazzi amari.”, mi ritrovai a risponderle, cercando di distrarmi dalla latente preoccupazione che mi dava sapere quanto le avesse fatto male il cuore poco prima, senza che lei avesse battuto ciglio per lamentarsene.
Tu guarda se mi doveva esser tolto anche il gusto di romperle le palle.
Ma non ricevetti risposta immediatamente, preferì rispondermi solo una volta arrivati nel suo appartamento; non era una da chiacchiere inutili, e questo mi piaceva non poco di lei, almeno avremmo lavorato bene insieme.
“Wakako Okada, va bene? Mi deve un favore e parecchi soldi dopo l’ultimo lavoro che ho fatto per lei, mi ascolterà. Ora, però, se non hai altre domande, io avrei bisogno di dormire. A parte le ore in cui Vik mi ha vegliato dopo avermi ricucita, anche se non credo che un coma si possa chiamare riposo -ma amen-, non dormo da parecchio. Ho davvero bisogno di riposare.”, concluse mentre con lo sguardo offuscato e spento, cercava di spogliarsi per mettersi a letto.
Non come prima, ma il cuore aveva ricominciato a farle male, ora potevo sentirlo chiaramente. Adesso era una fitta continua, meno dolorosa, ma continua e spaventosa; e lei continuava a non lamentarsi, reggeva il colpo.
Nuda poi, non era niente male, pensai per un attimo, prima di affrettarmi ad ammettere che forse quella era la prima buona idea che aveva da quando l’avevo conosciuta, quindi se smetteva di rompere le balle e si metteva a dormire non guastava.
Evita Johnny, non è il momento.
“Ssesse, Johnny, va bene, va bene, anche io non vivo senza di te. LETTERALMENTE. Ora, se hai finito di rompere le balle, buonanotte.”, disse prima di girarsi dall’altra parte rispetto alla finestra dove mi ero appoggiato per guardare il panorama.
Dio se mi era mancato tutto questo, pensai.
La realtà, lo smog della città, l’odore di sesso nelle zone gestite dalle Mox o addirittura la puzza di sudore delle palestre clandestine dei Tyger CLaws, le urla del mercato di Kabuki, un altro essere umano attorno da sentire, con cui interagire, per davvero poi! Non il risultato di una stramaledetta stringa di codice che mi dava il permesso di “fare cose”, immaginare di toccare anche solo per un istante, ma un vero e reale essere umano, che nemmeno sembrava odiarmi.
Vero, era un mondo di merda quello, fanatico, violento, sanguinario e crudele, ma per quel mondo ero già morto una volta e lo avrei fatto ancora e ancora fosse stato necessario, l’avrei liberato da quel cancro che era l’Arasaka e tutte quelle altre maledette corporazioni. Finché anche solo una fosse rimasta in piedi, nessuno avrebbe potuto ricordare cosa volesse dire essere davvero libero; non avevo intenzione di permetterlo quando ero ancora in vita, figuriamoci ora, continuavo a ripetermi mentre poggiato accanto alla finestra, ogni tanto mi voltavo per controllare che dormisse davvero e non ci lasciasse le penne. Quello che di buono c’era in me, era morto tanti anni prima, quando ero andato in guerra in Messico, e l’unica cosa che mi rimaneva di fare era tutto il possibile per impedire che qualcuno soffrisse quello che avevo sofferto io. Oramai sembravo un vecchio brontolone che non faceva altro che rimuginare sulla vita passata, ma quello non era un ricordo perso nel tempo se 50 anni dopo le cose ancora non solo non erano cambiate, ma si poteva dire che in qualche modo fossero pure peggiorate.
Un rumore a quel punto, mi distolse dai miei pensieri.
Un singhiozzo, leggero, delicato, quasi impercettibile, ma sentendolo istintivamente mi voltai di nuovo verso V, pensando si sentisse male: in realtà, stava piangendo. Nel sonno, oltretutto. Fisicamente minuta, sotto quella coperta rannicchiata sembrava quasi stesse cercando di scomparire, ma di sicuro ancora dormiva e non avevo la più pallida idea del cosa credo stesse sognando in quel momento tanto da portarla a piangere.
Un flash della sua vita prima di arrivare a Night City come nomade, di colpo mi travolse. All’inizio mi riuscì solo di sentire le sue urla di dolore mentre qualcuno credo la stesse picchiando selvaggiamente in quella che sembrava un’officina, poi un’immagine. Lei sembrava giovane, un adolescente credo, allo specchio di un lavandino lercio, col naso credo rotto in due punti almeno, un occhio nero, il labbro spaccato e la … dio, no.
La maglia strappata all’altezza del seno lasciava in mostra la pelle e del sangue le colava tra le gambe dagli shorts strappati. Dio no no no ti prego, non questo, non posso, ti prego, non questo.
“Mai più”, le sentii sussurrare, mentre puliva il sangue che le colava dal labbro prima di prendere un serramanico nascosto tra i tubi e, digrignando i denti, credo andare a farsi giustizia.
Rimasi con lo sguardo fisso nel vuoto per non so quanto tempo, cercando di riprendermi.
Ma che vita del cazzo devi aver passato, ragazzina, pensai.
E sperando di togliermi dalle spalle il senso di colpa per qualcosa che non avevo fatto, cazzo, io non le avevo fatto niente perché cazzo dovevano addirittura tremarmi le mani maledizione, mi appoggiai accanto a lei provando ad asciugarle quelle lacrime con una carezza, che non avrebbe potuto sentire, credo, spero anzi, ma sentivo il bisogno di provare.
Ssshhh… Va tutto bene ora, sei al sicuro. Dormi tranquilla, le sussurrai piano, cercando di non svegliarla. Forse un cuore lo avevo ancora, nonostante tutto, perché vederla in quelle condizioni mi fece salire su una morsa veramente pesante a stringere a cui ammisi di non esser stato troppo abituato; però almeno a qualcosa ero servito e con qualche carezza, vedendola più tranquilla, mi riuscì di scivolare per un po’ nel buio.
Forse meritavo anch’io un po’ di riposo, i veri guai iniziavano solo ora.”
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